Somalia e Sud Sudan. Carestie, siccità, scontri etnici e saccheggio delle materie prime. Quale futuro per una parte dell'Africa?

di Matteo Lombardi 05/03/2017 NON SOLO OCCIDENTE
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La nostra attenzione, quella dei media, dell’opinione pubblica, verso le realtà al di fuori dei confini nazionali o di quelli continentali, non è mai adeguata all’importanza dei fatti che accadono. A tal proposito in questi ultimi mesi sembrano sparite dagli organi di stampa le notizie, tragiche, e dure, che giungono dall’Africa.

Partiamo dalla Somalia, paese che se non altro storicamente ci riguarda da vicino. Nel Corno D’Africa, si aggrava la siccità. Solo nelle ultime ore più di cento persone sono morte di fame. Il primo ministro somalo Hassan Ali Haire ha comunicato che 110 persone sono morte di fame nelle ultime quarantotto ore nella regione sud occidentale del Bay.

Si tratta del primo bilancio ufficiale delle vittime della crisi idrica, provocata in parte dal fenomeno climatico El Niño. Attualmente quasi tre milioni di persone non hanno accesso a cibo sufficiente e si teme che la situazione possa degenerare in carestia.

Ma la situazione più grave è senza dubbio quella del Sud Sudan. Una nazione nata nel 2011 dopo una lunga e violenta guerra civile che ha diviso il “vecchio” Sudan. La parte settentrionale, più desertica e secca è a prevalenza arabo-islamica, la parte sud è confessionalmente riconducibile a un misto di cristianesimo e religioni locali (animiste). Molti tendono spesso a far coincidere l’incipit delle vicissitudini storiche dei paesi sub-sahariani con le colonizzazioni, quando in realtà le frizioni moderne hanno radici molto più profonde, intrecciate sia con fattori endogeni che con fenomeni esterni (prevalentemente interessi economici dei colonizzatori).

Quando tra il 9 e il 15 luglio del 2011 le popolazioni meridionali del Sudan furono chiamate a esprimersi circa la possibilità di ottenere l’indipendenza dal regime di Khartum (la capitale sudanese), è facile immaginare cosa circolasse per la testa di un popolo straziato dalla guerra. Molte le scene di giubilo a Juba.

Da allora sembra però passata un’epoca: chi infatti aveva pensato di lasciarsi alle spalle tutte le frizioni con il nord, dando così nuova linfa vitale a uno dei territori più poveri al mondo, ha dovuto fare i conti con la storia.

Secondo i calcoli più aggiornati, Ammonterebbero a circa 64 le etnie in cui gli 11 milioni di abitanti del Sud Sudan si riconoscono. E come spesso è accaduto nella storia dell’uomo, la diversità diventa un cliente scomodo in periodi di fame e miseria: secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale il Sud Sudan, guidato dal Presidente Salva Kiir, palesava nel 2014 un reddito pro capite annuo di appena 1111 dollari, un’inflazione alle stelle (oltre che in costante crescita) e una povertà diffusa su tutto il territorio. La maggior parte delle persone è occupata in mestieri non retribuiti, prevalentemente in agricoltura di sussistenza e nel febbraio di quest’anno è stato dichiarato lo stato di carestia, seppur limitato soltanto ad alcune regioni del paese. Agenti atmosferici avversi e la distruzione dei campi per mano dei bombardamenti hanno causato quello che è stato definito nel novembre scorso da Ban Ki Moon come «un vero rischio di atrocità di massa».

Da qui nacque una nuova guerra civile, intervallata dalla flebile pace dell’agosto 2015 e riesplosa nel luglio 2016, proprio in occasione delle celebrazioni dei primi 5 anni di indipendenza del sud Sudan. I numeri dei danni causati dal conflitto non sono molto precisi, ma si dice che dal 2013 a oggi vi sarebbero stati 300mila morti e circa 2 milioni di sfollati. La gente fugge verso gli stati confinanti (come l’Uganda) o cerca riparo nei campi di accoglienza dell’Onu presenti all’interno dei confini nazionali. Le lotte intestine tra Dinka e Nuer hanno infatti avuto ripercussioni su tutti, anche su quelle etnie non direttamente coinvolte: si riportano addirittura numerosi attacchi effettuati contro gli stessi campi accoglienza allestiti dall’Onu.

Le questioni etniche in Africa non sono uno scherzo.

Molto difficile inquadrare l’effettivo ruolo che le milizie delle UN hanno avuto in questi anni, meglio concentrarsi su un’evidenza: sembra che nessun attore internazionale voglia mettere la parola fine a un conflitto cominciato quasi quattro anni fa. E la causa come spesso accade a queste latitudini è da rintracciarsi nella corsa allo sfruttamento delle risorse. Oro, rame, zinco, uranio, diamanti, tungsteno e molte altre risorse minerarie (in grandi quantità) si accompagnano alla vera ragione d’interesse che le grandi potenze internazionali riservano al giovane stato centroafricano: l’oro nero.

Il Sudan del sud è strettamente dipendente da questa risorsa, così tanto che la stessa costituirebbe la quasi totalità delle sue esportazioni (95%, dati al 2009) e il 60% del pil. La Cina guarda con interesse a questa risorsa, forte della sua presenza nel paese. Il governo sudanese è il quarto esportatore mondiale di petrolio a beneficio di Pechino.

Si dice che i primi a scoprire questo tesoro (sebbene anche le popolazioni native fossero a conoscenza di pozzi superficiali) furono gli Stati Uniti: la Chevron iniziò le prime esplorazioni negli anni ’80, salvo poi ritrovarsi costretta a rinunciarvi a causa delle aggressioni per mano del Sudan People’s Liberation Army/Movement (SPLA/M), lo stesso gruppo in cui ha miltato a lungo l’attuale Presidente sudanese Kiir. Così, nel ’92, gli americani cedettero le loro concessioni di esplorazione ed estrazione del greggio. E’ piuttosto significativo il dato che ad oggi la gran parte dei pozzi sia in mano alla China National Petroleum Corporation (CNPC). I cinesi si sono aggiudicati queste risorse offrendo in cambio al governo di Karthum infrastrutture (raffinerie, strade e oleodotti) e armamenti, stando almeno a ciò che riportano numerose fonti. E’ intorno al petrolio che montano i conflitti degli anni ’90 ed è proprio sullo sfruttamento di questa risorsa che l’accordo di pace del 2005 tra Sudan settentrionale e meridionale sembra incentrarsi.

A detta di molti infatti il paese rischia di assistere a un genocidio dei Nuer per mano dei Dinka, l’etnia più numerosa in sud Sudan (35,8% degli 11 milioni di abitanti). Dall’altra parte la Cina non sembra essere pronta a mollare, dopo aver visto costretto l’alleato regionale Al-Bashir a cedere terreno nel 2005 con gli accordi kenioti.

Tutti i giochi sono ancora aperti, la corsa a una risorsa che, secondo stime di qualche anno fa, assisterà a una produzione in drastico calo soltanto nel 2035, è in pieno svolgimento. E mentre le grandi potenze giocano a condurre una guerra confusa, cruenta e impossibile da decifrare, la popolazione sudanese muore, come testimoniato dalle immagini in galleria.


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